Il corpo in cui sono nata di Guadalupe Nettel

Per abbracciare la nostra natura profonda dobbiamo liberarci dell’armatura che altri hanno posto sulle nostre spalle. Questa sembra essere la conclusione cui arriva Il Corpo in Cui sono Nata, un irriverente, delizioso ed enigmatico memoir scritto da Guadalupe Nettel (Città del Messico, 1973), pubblicato in Italia prima da Einaudi (2014) e poi da La Nuova Frontiera (2022) con traduzione di Federica Niola.

Da quando Flaubert ha scritto la prima, il genere dell’educazione sentimentale non è mai andato fuori moda. Penso sia perché ripropone una domanda che tutti ci facciamo: come sono diventata/o chi sono? Guadalupe Nettel rovescia la prospettiva: cosa intendevano fare di me, le persone che mi hanno cresciuta? L’interrogativo è rivolto alla terapeuta, la dottoressa Sazlavski, muta interlocutrice di questa divertita, sofferta confessione e auto-apologia. In effetti, educare, se ci affidiamo all’etimologia, vuol dire ‘tirare fuori’ e l’infanzia è quel periodo di apprendistato senza difese e senza possibilità di replica, in cui ciascuno di noi è in balia delle scelte dei suoi genitori e del luogo abitato.

I bambini vivono in un mondo dove la maggior parte delle situazioni in cui si trovano è imposta. Altri decidono per loro: la gente che devono vedere, il luogo in cui devono vivere, la scuola che frequenteranno, persino ciò che devono mangiare ogni giorno. Il fatto che mio padre fosse in prigione era parte di tutto ciò.

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Dunque, chi è Guadalupe? Il momento zero, in cui da bambina si riconosce allo specchio, avviene con la diagnosi di un difetto fisico. Ha una voglia bianca su un occhio, che la costringe a indossare una benda. Una mostruosità da cui nasce la percezione di sé come sbagliata rispetto agli altri bambini. Un’idea confermata dalla mamma, che si affretta a cercare dottori per correggere la malformazione, e scopre con suo disappunto che non si può, bisogna aspettare la crescita.

La piccola Guadalupe tenta a più riprese di uniformarsi alle aspettative senza riuscire a soddisfarle. Forse perché anche mamma è in cerca del bandolo della matassa, dopo l’abbandono del marito, e tende a proiettare la sua insoddisfazione. Forse perché lei, Guadalupe, non può che essere se stessa con tutto il carico di delusione che ne viene. La deformità fisica della figlia, perciò, agli occhi del genitore diventa col tempo caratteriale, diventa pigrizia, resistenza al cambiamento, diventa ahimé la sua stessa personalità: la metafora del libro si gioca sulla tensione data dal tentativo insistito e corale di smussare un difetto incorreggibile. Prima ci provano i genitori, poi la nonna, e poi il Messico e infine la Francia: il ritornello non cambia, così come sei non vai bene.

Ah, uno dei motivi per cui questa narrazione vi intrigherà è la presenza sullo sfondo di Città del Messico, labirintica, vivace, imprevedibile e insidiosa. Non la Città del Messico di oggi, bensì quella degli anni Settanta, decade in cui l’autrice è stata bambina. Ed epoca molto specifica della storia recente, in cui si sperimentavano per la prima volta gli effetti di un inedito connubio, quello tra la matura società dei consumi e la rivoluzione sessuale.

– Perché la gente ha rapporti sessuali?
-Per provare piacere, -rispondevano all’unisono i due adulti seduti davanti.
Mentre mio fratello era assorto nell’osservazione delle auto che passavano per strada io tornavo all’attacco: -Sì, ma che vuol dire?
-Vuol dire fare qualcosa che amiamo molto, come ballare o mangiare cioccolatini!
Mangiare cioccolatini! Con una risposta simile, una bambina poteva tranquillamente chiudersi in bagno con il primo maschio che le capitava mano la mattina stessa.

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Non troppo incredibilmente c’è del rimpianto per l’amore, quello di una volta.

Dottoressa Sazlavski, perché nessuno ha pensato di rispondere che i rapporti sessuali avvengono per amore e che sono un modo di dimostrarlo?

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Nella vita quotidiana, la fiamma del sesso, lungi dall’essere la forza positiva e maneggevole tanto favoleggiata dagli adulti, resta un tabù dai risvolti feroci. La poligamia dei genitori distrugge il nido domestico. Una coetanea, Ximena, viene stuprata nel cortile del palazzo. La stessa Guadalupe sperimenta, per tutta la crescita, il potere violento e antisociale che la bellezza e il desiderio esercitano su chiunque. E con un certo sollievo, di quando in quando, ritorna all’onanismo come “chi abbraccia una fede salvifica”.

“Perché non sei meglio di così, con tutto quello che ho fatto per te?”. La ferita da cui sgorga la narrazione a me pare sia questa: il mancato riconoscimento. La mancata accettazione del genitore. Che probabilmente non nasce in seno all’identità della figlia ma dalla fatica e dalla confusione del genitore stesso. Quel bisogno insoddisfatto pesa come un macigno sull’autostima della piccola affabulatrice che scopre con grande interesse l’esistenza di Kafka e la storia di Gregor che una bella mattina si ritrova scarafaggio.

Anche se non priva di dolore e insicurezze, l’età adulta infine arriva e dà addito alla saggezza: il risentimento verso i genitori, per le loro mancanze, per i loro errori, deve essere abbandonato in favore della gratitudine e della comprensione. Essere adulti vuol dire sapersi confermare da soli: “io così vado bene”, “quel difetto sono io e non lo cambierei”. L’autrice cerca e trova nella scrittura la sua conferma, la valorizzazione della propria particolare esperienza. Questo non vuol dire che i cocci del vaso si ricompongono. Resta l’amaro in bocca per ciò che poteva essere e non è stato:

Immagino il giorno in cui morirà mia madre e mi prefiguro l’insondabile vuoto che lascerà nella mia vita quando accadrà. Come se, all’improvviso annunciassero all’ossessivo capitano Achab che la balena si è arenata per sempre e che lui non potrà mai più darle la caccia. Come quella di Moby Dick, anche la nostra è una storia d’amore, d’amore e di incontri mancati.

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Dunque, per abbracciare la nostra natura profonda dobbiamo liberarci dell’armatura che altri hanno posto sulle nostre spalle. Operazione che non sempre riesce a puntino:

I comportamenti acquisiti durante l’infanzia ci accompagnano per sempre, e anche se a forza di volontà li teniamo a bada, acquattati in un luogo tenebroso della memoria, quando meno ce lo aspettiamo ci saltano in faccia come gatti inferociti.

Pubblicato da

Loris Righetto

Nato e cresciuto tra Verona e la sua provincia. Oltre alle cose importanti per vivere, mi occupo di narrativa, immagini e scrittura. Sono laureato in lingue e ho frequentato il Columbia Publishing Course a NYC. Miei racconti sono apparsi su diverse riviste cartacee e digitali, tra cui Nuovi Argomenti. La mia raccolta di racconti, al momento inedita, è stata menzionata al Premio Calvino, edizione 2019.